Giuditta con la testa di Oloferne. XVII secolo
Giuditta con la testa di Oloferne. XVII secolo
SCUOLA TARDO-MANIERISTA DI FONTENBLEAU (ENTOURAGE DI TOUISSANT DUBREUIL 1561-1602), GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE (olio su tela)
L’olio su tela che presentiamo raffigura uno dei più noti soggetti iconografici femminili tratti dalla letteratura veterotestamentaria: la prode ebrea Giuditta che reca in mano la testa del generale assiro Oloferne dopo averlo decapitato.
L’episodio è ispirato allo scritto del Vecchio Testamento, che prende il nome dall’omonima eroina: Libro di Giuditta 13: 8-11. Più precisamente, il soggetto del quadro costituisce il drammatico epilogo di una storia di femminili trame, che, nel corso dell’assedio della città di Betulia da parte dell’esercito assiro del re Nabucodonosor, narra le prodezze della vedova ebrea Giuditta che sguaina in primis la femminile arma della seduzione per far invaghire di sé il generale nemico Oloferne, sapientemente tramando alle sue spalle fino a decapitarlo approfittando del suo stato di ubriachezza nel corso di un banchetto.
Grazie all’inganno perpetrato nei confronti del nemico innamorato, Giuditta assurge a simbolo e prototipo dell’astuzia femminile sulla prepotenza dell’invasore grazie all’ammaliante opera di seduzione.
Sebbene il soggetto di cui parliamo abbia ottenuto indiscussa fama e notorietà in pieno seicento grazie al genio di Caravaggio, che lo ha “consacrato” con il noto dipinto custodito nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini fino ad imporsi come vero e proprio tableau da “giallo” artistico balzato in queste ultime settimane agli onori delle cronache per la querelle concernente un presunto esemplare del Caravaggio autografo rinvenuto in una soffitta della città francese di Tolosa, dato perpunto incontrovertibile che il nostro soggetto rappresenti quanto di più appetibile il mercato dell’arte possa continuare ad offrire per amatori e collezionisti, per un intrinseco senso di pathos che costituisce la struttura portante stessa dell’episodio nonché la linfa vitale di ogni rappresentazione pittorica del genere, a rendere interessante il nostro dipinto è la sua collocazione cronologica, che lo riporta ad una fase artistica antecedente la lezione caravaggesca: il manierismo.
La sobria e composita eleganza figurativa, la luminosità e la colorazione, uniti ad un certa stilizzazione del volto ed anatomica, permettono di collocare il dipinto nei primi anni del seicento e, ancor meglio, di considerarlo un genuino risultato del tardo manierismo francese ascrivibile all’entourage di TouissantDubreuil (Parigi 1561-1602), uno degli epigoni della nota scuola di Fontenbleau, spesso evocata per il gioco di reciproci influssi e suggestioni con il manierismo fiorentino.
Aperto alle tendenze del Primaticcio e di Nicolò dell’Abate, Dubrueil, che tra l’altro fu pittore di corte di Enrico IV, mostra di aderire alle istanze metafisiche del manierismo nel “Sacrificio e Risveglio di una dama” (castello di Saint Germain en Laye), ma soprattutto in “Angelica e Medoro”, in cui fa definitivamente proprio il nuovo stile.
Quello che Caravaggio renderà un “cavallo di battaglia” sulla centralità del pathos destinato ad esprimere icasticamente il pericoloso ossimoro eros-thanatos in tutta la sua seducente crudezza per seguaci ed ammiratori, da Artemisia Gentileschi(Firenze, Uffizi e Napoli, Galleria di Capodimonte) al toscano Cristofano Allori (Firenze, Uffizi), è nella nostra tela declinato attraverso il linguaggio della sublimazione intellettuale tipica del manierismo, che trascende il pathos attraverso il virtuosismo tutto cerebrale affidato al colore.
L’assenza della serva anziana accanto a Giuditta, che invece costituisce un elemento iconografico irrinunciabile anche negli antecedenti esemplari di Botticelli e Mantegna, isola la nostra eroina in un tutta la sua autoreferenzialità quasi a voler sottrarre l’evento alla sua dimensione storica e contingente con tutta la crudezza di cui trabocca in altre versioni, per farne una “Circe” che con il suo sguardo fisso, in primo piano, cattura lo spettatore quasi a volerlo con rispettosa provocazione interrogare sui confini dell’arte della seduzione femminile lasciando alla fantasia quanto di più crudo, macabro e repellente non viene nella tela esibito.
Oltre al conclamato successo iconografico del soggetto, l’attribuzione alla singolare scuola pittorica tardo-manierista, le non trascurabili dimensioni della tela (133 x 100 con cornice) e lo stato di conservazione contribuiscono ad accrescerne l’appetibilità.
EPOCA Pensare a fare metafield con caratteristiche
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dimensioni - trasporto o note
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